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LA TUTELA PENALE DELLE VITTIME DI VIOLENZA INTRAFAMILIARE E DI STALKING

23 Gennaio, 2017

LA TUTELA PENALE DELLE VITTIME DI VIOLENZA INTRAFAMILIARE E DI STALKING

La violenza domestica è un fenomeno molto diffuso che riguarda ogni forma di abuso fisico, psicologico, sessuale ed ogni comportamento comunque coercitivo esercitato per controllare emotivamente una persona che fa parte del nucleo familiare.

Sono molte (circa 2 milioni secondo i dati ISTAT) le donne tra i 16 e i 70 anni che hanno subito violenze domestiche, molti anche i minori che ne sono stati vittime.

Numeri preoccupanti anche in considerazione del fatto che si stima che oltre il 90% delle vittime non denuncia il fatto.

Da un rapporto EURES-ANSA del 2005 è emerso che un omicidio su 4 in Italia avviene in famiglia, tra le mura domestiche, che il 70% delle vittime è donna e che in 8 casi su 10 l'autore è un uomo.

Il diritto (specie il diritto penale) ha sempre avuto difficoltà nel prevenire e sanzionare le violenze nell'ambito della famiglia, in quanto restio a frapporsi nei contrasti intrafamiliari. Ciò in primo luogo a causa di un retaggio culturale. Il concetto di famiglia, infatti, rispetto alla piccola chiusa comunità patriarcale, si è evoluto negli ultimi decenni e l'apertura della famiglia ad un contesto di valutazione sociale risale solo agli ultimi anni.

Basti pensare che i reati sessuali erano ricompresi tra i delitti contro la morale e non tra quelli contro la persona fino al recente 1996 e che il delitto d'onore ( che prevedeva una pena detentiva da 3 a sette anni per colui che uccidesse moglie, figlia o sorella per l'offesa recata “all'onor suo o della famiglia”) è scomparso dal nostro codice solo nel 1981.

La legge penale interviene solo al momento in cui in seno alla famiglia sia già subentrata una crisi e si siano innescati meccanismi patologici nei vincoli affettivi e lo fa attraverso norme - poste a tutela della vittima - sia di natura sia sostanziale che processuale.

Tra le norme incriminatrici alcune sono riferibili solo ad un contesto familiare (art 570 c.p. e ss.) altre, pur non essendo riferite specificatamente alla famiglia, ricorrono però spesso nei casi di violenza domestica (percosse, lesioni,, ingiurie diffamazione, sequestro di persona, atti persecutori, violenza sessuale, omicidio).

Si diceva di come la legislazione penale, in materia di reati familiari, abbia risentito a lungo dei retaggi culturali del passato, da una parte approntando un sistema repressivo piuttosto limitato, tendendo ad inserirsi il meno possibile in seno a quel nucleo ritenuto a lungo privatissimo e quasi inviolabile, dall'altro limitandosi a legiferare solo in relazione alla famiglia giuridicamente intesa, escludendo quindi qualsiasi forma di tutela nei confronti della famiglia di fatto.

Ultimamente si assiste ad una decisa inversione di tendenza, dovuta probabilmente al clamore suscitato da fatti di cronaca che sono stati portati all'attenzione dell'opinione pubblica dai mezzi di informazione e che hanno portato all'introduzione di nuove figure di reato – come quella di atti persecutori, cosiddetto stalking, nonché alla modifica di fattispecie esistenti, quale quella che è intervenuta con la legge 1 ottobre 2012 n.172 che ha modificato l'art. 572 c.p. ( maltrattamenti in famiglia), fino ad arrivare alle modifiche – che hanno riguardato disposizioni di natura sia sostanziale che processuale- intervenute con il decreto legge 14 agosto 2013 n. 93 (normativa in tema di c.d. Femminicidio).

Una prima importante novità – dal punto di vista cronologico – si è avuta dunque con l'introduzione – attraverso l'art 7 della legge 23 aprile 2009 n. 38- del reato di atti persecutori, previsto dall'art. 612 bis c.p. che punisce chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata al medesimo da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

Va innanzi tutto precisato che la norma si riferisce a situazioni che riguardano non solo il contesto affettivo/familiare, ma anche ambiti diversi come quello – estraneo al tema odierno- professionale /lavorativo.

Attraverso il dettato di questa norma per la prima volta il legislatore prende in considerazione la “relazione affettiva” , quella non sacralizzata dal matrimonio (né dalla stabile convivenza), statuendo sul punto sia dal punto di vista di tutela della vittima (timore per l'incolumità propria, di un proprio congiunto, o di persona ad esso legato da relazione affettiva) sia da quello dell'autore del reato, prevedendo un'aggravante allorquando l'agente stesso sia il coniuge separato, divorziato o persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa.

Secondo la dominante giurisprudenza il reato di atti persecutori non sussiste nel caso in cui le condotte siano state poste in essere all'interno della famiglia, ricorrendo,in tali ipotesi, la diversa fattispecie di maltrattamenti in famiglia.

La parola stalking (con cui è più noto il reato di atti persecutori) deriva dall'inglese to stalk (fare la posta alla preda) e allude alle condotte reiterate atte ad interferire nella vita privata altrui con comportamenti antigiuridici.

Per la sussistenza del reato è dunque innanzitutto necessario che le condotte siano reiterate, in quanto ciò che si vuole punire è proprio il comportamento seriale. La reiterazione è dunque quel quid pluris che occorre a differenziare il reato di atti persecutori rispetto a quelli di semplice minaccia o di molestia. Si tratta quindi di un reato cosiddetto abituale, per la cui integrazione non è sufficiente una unica condotta molesta. La Corte di Cassazione ha comunque affermato che sono sufficienti ad integrare il reato anche due sole condotte di minaccia o molestia (Cass. V^ pen. 15/5/2013 n. 20993).

Si tratta inoltre di un reato di evento, essendo necessario che , oltre alla reiterazione delle condotte, queste abbiano – alternativamente- :

a) provocato un perdurante stato di ansia e di paura nella vittima;

b) ingenerato un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata da relazione affettiva;

c)costretto la vittima stessa ad alterare le proprie abitudini di vita.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione è concorde nell'affermare che sia sufficiente ad integrare il reato l'accertamento che gli atti abbiano avuto un effetto destabilizzante sulla serenità e sull'equilibrio della vittima, non essendo richiesto l'accertamento di un vero e proprio stato patologico.

Quanto alla prova dell'effettiva causazione dello stato d'ansia, secondo la giurisprudenza dominante, essa è ricavabile “dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a cagionare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata”(Cass. V^ pen. 16/04/2012 n. 14391)

Qualora non risultasse provata la verificazione di uno degli eventi richiesti dalla norma per la sussistenza del reato, dovrà procedersi alla riqualificazione del fatto per i reati di minaccia, molestia ed ingiurie.

La legge che ha introdotto il reato di stalking ha previsto (all'art. 8) anche una norma di carattere preventivo stabilendo la possibilità per la persona offesa, prima della proposizione della denuncia querela, di rivolgersi all'autorità di PS per chiedere l'ammonimento dell'autore della condotta . Il Questore può svolgere una breve indagine all'esito della quale, se ritiene fondata l'istanza, ammonisce il soggetto invitandolo a tenere una condotta corretta, redigendo verbale.

In caso poi di successiva proposizione di denuncia querela la pena per il soggetto già ammonito sarà aumentata. Trattasi di norma che agisce direttamente sulla prevenzione e che, in determinati casi, può avere una discreta efficacia deterrente.

La novità più importante in tema di evoluzione normativa in materia di famiglia del codice penale è costituita dalla legge 4 ottobre 2012 n. 172 concernente i maltrattamenti in famiglia.

E' mutata innanzitutto la rubrica, che prima si intitolava “maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli” mentre ora recita “maltrattamenti contro familiari e conviventi”, segnale evidente dell'intenzione del legislatore che, preso atto dell'evolversi dei costumi sociali, allarga la tutela anche alla famiglia di fatto.

Con la vecchia formulazione veniva punito chiunque maltrattasse una persona della famiglia o un minore degli anni quattordici. Il nuovo testo , oltre a prevedere pene più elevate (reclusione da due a sei anni anziché da uno a cinque), punisce, appunto, chiunque “maltratta una persona della famiglia o comunque convivente”. Con il secondo comma è stata inoltre introdotta un'ipotesi aggravata qualora il fatto sia stato commesso in danno di persona minore degli anni quattordici ( con il decreto legge 14/08/2013 n. 93 la previsione è stata ulteriormente modificata prevedendo che il reato debba ritenersi aggravato quando venga commesso , non solo in danno, ma anche alla mera presenza di un minore degli anni diciotto).

Va detto che la giurisprudenza, negli ultimi anni prima della riforma, aveva già esteso la tutela alla famiglia di fatto, quella del legislatore è stata quindi una sorta di presa d'atto.

Ci si è chiesto se per la configurabilità del reato sia necessaria una convivenza in atto, la sentenza Cass. VI 7/5/2013 n. 22915 ha ritenuto che non debba ritenersi necessario il requisito della coabitazione in caso di separazione consensuale o giudiziale dei coniugi , perché nonostante la cessazione della convivenza persistono obblighi giuridici ,seppur attenuati, di assistenza materiale e morale nascenti dal matrimonio. Diversa la situazione in caso di famiglia di fatto “perché la cessazione della convivenza rende manifesta l'avvenuta estinzione dell'affectio che reggeva quell'unione, a meno che altri elementi rilevino per la prosecuzione del rapporto di reciproca assistenza che costituisce il fondamento volontario della famiglia di fatto”. Un accertamento caso per caso, dunque, volto ad accertare se il rapporto familiare di fatto, in difetto di convivenza, possa essere desunto dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza.

Anche il reato di maltrattamenti in famiglia sussiste solo laddove la condotta sia svolta in modo continuato ed abituale. Sono quindi esclusi dalla previsione normativa comportamenti di carattere episodico.

Quanto all'espressione “maltrattare” essa viene intesa quale sinonimo di “moritificare” “far soffrire”. Trattasi dunque di un reato a forma libera, i cui comportamenti possono essere fisici come psicologici, potendo anche consistere in atti isolatamente non punibili (atti di umiliazione o di infedeltà) che acquistano rilevanza nella loro reiterazione nel tempo.

Rispetto ai soggetti tutelati si è già detto dei coniugi e conviventi.

Rientrano ovviamente nella tutela anche i figli minori e maggiorenni conviventi.

Con riguardo ai figli minori è interessante il filone giurisprudenziale cui ha dato origine sentenza pronunciata dalla Cassazione il 18 marzo 1996 che ha dato rilievo al comportamento omissivo stabilendo che il reato non si consuma soltanto attraverso azioni ma anche mediante omissioni laddove, per esempio, non venga rispettato l'obbligo - da parte del genitore - di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli, sicché maltrattare vuol dire, mediante costante disinteresse e rifiuto, a fronte di evidente stato di disagio psicologico e morale del minore, generare o aggravare una condizione di abituale e persistente sofferenza, che il minore non ha alcuna possibilità né materiale né morale di risolvere da solo.

Ma è prevista anche la tutela dei genitori rispetto ai figli maggiorenni , la Cassazione ha infatti correttamente ritenuto che integrano il reato di maltrattamenti – per esempio – le continue vessazioni dei figli tossicodipendenti poste in essere nei confronti dei genitori e dirette ad ottenere denaro necessario per l'acquisto degli stupefacenti.

Con il reato di maltrattamenti possono concorrere altri reati (lesioni, abusi sessuali ecc).

In questo quadro di crescente tutela in ambito di reati intrafamiliari sono state negli anni apportate modifiche anche al codice di procedura penale. Ciò al fine di evitare il protrarsi delle condotte tra il momento della proposizione della denuncia e quello della celebrazione del processo.

Nel 2001 sono state introdotte due nuove misure fra quelle coercitive. Quella di cui all'art. 282 bis che prevede la possibilità da parte del giudice di emettere un provvedimento di allontanamento dalla casa familiare e di divieto di accedervi senza autorizzazione (per salvaguardare le esigenze di incolumità della persona offesa e dei suoi prossimi congiunti) e quella prevista dall'art.282 ter relativa alla possibilità di emettere provvedimento di divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa o da persone con questa conviventi o legati da relazione affettiva.

Questo, a grandi linee, il quadro normativo in materia allorquando è stato emanato il decreto legge 14 agosto 2013 n. 93, più noto come decreto sul “femminicidio”, convertito in Legge 15 ottobre 2013 n. 119.

A rischio di apparire impopolare , ho da subito esternato perplessità su una normativa che non mi convince affatto, perché aggira il problema e perché, come spesso accade, interviene sugli effetti piuttosto che sulle cause.

Il neologismo stesso, “femminicidio”, cela a mio avviso in sé un che di discriminatorio.

Si tratta poi dell'ennesima normativa che si inquadra in quella legislazione a botta di decreti legge tanto cara (in materia di sicurezza e giustizia) agli ultimi governi, ma che difetta del presupposto stesso dell' urgenza.

Che il problema esista non lo si nega affatto, ma l'intero quadro del diritto penale di famiglia richiederebbe una riforma organica che non può risolversi con una stretta di chiave e con disposizioni processuali per lo più inutili, ma che avrebbe invece bisogno del normale iter parlamentare nell'ambito del cui dibattito sviscerare le problematiche e individuare le soluzioni più appropriate.

L'urgenza a sostegno del decreto legge è stata nella fattispecie ravvisata nell' “incremento di episodi di violenza contro le donne”. Mancano peraltro statistiche a conforto. L'unico dato certo è la maggior consapevolezza del problema e l'incremento della divulgazione delle notizie in proposito. L'opinione pubblica ha giustamente ritenuto di sensibilizzare la collettività rispetto ad episodi terribili che prima passavano sotto silenzio.

Non è una novità che il governo di turno recepisca le emozioni collettive traducendole in una decretazione di urgenza che spesso e volentieri produce leggi irrazionali e arraffazzonate, semplice strumento di propaganda politica.

Sta di fatto che , al di là del titolo, la normativa in commento non stabilisce nulla di specifico in merito al “femminicidio”.

Sono state previste aggravanti nel reato di violenza sessuale qualora il fatto sia commesso su donna incinta ovvero quando lo stesso sia commesso dall'ex marito o partner anche non convivente. Nulla da dire sull'opportunità della previsione, che però, certamente, non richiedeva la decretazione d'urgenza. Senza considerare la scarsa incidenza, in tema di prevenzione, di norme che troveranno applicazione solo all'esito di un giudizio.

E' stata introdotta un'aggravante per il reato di stalking qualora il fatto sia commesso con strumenti informatici o telematici. Il che solleciterà probabilmente lo stalker ad utilizzare mezzi tradizionali quali la telefonata, la corrispondenza ordinaria o , meglio ancora, ad agire di persona.

E che dire della norma che prevede l'arresto in flagranza per i reati di stalking e maltrattamenti in famiglia senza tener conto del fatto che, trattandosi di reati abituali ed essendo l'accertamento dell'abitualità di fatto impossibile in presenza di un solo comportamento quale quello commesso in flagranza, rimarrà come minimo inattuata?

Introdotte poi una serie di norme processuali specificamente previste per le vittime di maltrattamenti in famiglia e stalking, quali: il diritto alla notifica dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari; il diritto alla notifica delle richieste di revoca della misura cautelare o coercitiva avanzate dall'indagato/imputato; l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

Previsioni che non incidono fattivamente sul problema e che comportano aggravi di attività processuale

Una legge che non è piaciuta neanche a molte associazioni femminili che l'hanno interpretata come un provvedimento di mera facciata, inadatto a fronteggiare il problema delle vittime di violenza e potenzialmente pericoloso rispetto all'altrettanto grave problema delle false accuse. Nelle controversie di natura familiare, infatti, la strumentalizzazione di denunce nei confronti dell'altro genitore è in costante aumento. Le donne sono spesso vittime di violenza, questo è un dato indubitabile che esige risposte forti da parte dell'Ordinamento. Ma, va detto, sono proprio le donne che spesso ricorrono all'uso strumentale di denunce che coinvolgono anche i figli. Non va trascurato il dato secondo il quale il 30% degli stalkers è donna né che ci sono donne che vivono nell'orbita di padri separati e che, insieme agli eventuali figli di secondo letto, sono spesso oggetto di false e strumentali accuse.

Perché sono aumentate le violenze sulle donne? E perché proprio quelle commesse dal partner o ex partner?

Probabilmente è proprio per il cambio di ruolo che l'uomo ha subito nel corso degli ultimi anni in seno alla famiglia. Non è più il capofamiglia assoluto, il centro degli interessi, l'unico che porta i soldi a casa. Ha vicino una donna più autonoma , indipendente che – al contrario di quanto succedeva in passato – si sente libera di scegliere, anche la fine di un matrimonio o di una relazione.

Senza considerare che molte separazioni incidono anche economicamente in maniera assai significativa. Separarsi in alcuni casi è un lusso e anche la frustrazione dovuta alle difficoltà di gestione del nuovo stato può generare violenza. E' su queste problematiche che bisogna agire, predisponendo strumenti di sostegno sia psicologico che materiale per le famiglie separande o separate.

Occorre agire sulle cause della violenza, perché gli strumenti per perseguirne gli effetti ci sono già. La giustizia è statica, le cause procedono a rilento, da anni non sono previsti fondi per potenziare l'apparato amministrativo che necessariamente sorregge il regolare andamento della funzione giudiziaria.

Il problema non si può risolvere con una legislazione in via d'urgenza che cerchi di fronteggiare la singola emergenza bensì solo con un'organica riforma della giustizia. Ma questo è un altro tema.

Avv. Livia Rossi
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